Nessuna arte, per quanto si dica o la si classifichi realista,
rappresenta la realtà. Anche la fotografia, che al suo apparire
costrinse la pittura ad abbandonare la mimesis spingendola
verso nuove affascinanti frontiere, mai è pura realtà o verità.
Quando è verità, non è arte, ma denuncia o documento. Ciò che
vediamo presentato nelle immagini artistiche è sempre un mondo,
e l’efficacia delle opere è direttamente proporzionale alla
capacità di creare mondi particolari, riconoscibili, diversi da
tutti gli altri.
Sotto questo punto di vista, non c’è il minimo dubbio che queste
opere, sia prese assieme che una ad una, presentano un mondo,
il mondo di Eliseo Andriolo. Non un mondo di fantasia, perché le sue
opere nascono sempre da uno sguardo sul reale, ma un mondo che è
appunto il risultato di una selezione di elementi accuratamente
disposti e della cattura di particolari sensazioni. La natura si
offre al suo sguardo come un teatro di posa, descritto con grande
forza realistica, perché possiamo quasi respirare la polvere e gli
odori di questi posti, ma anche con grande potenza immaginativa,
perché siamo trasportati in un’atmosfera diversa, con le sue
specifiche risonanze, inquietudini, curiosità.
La particolarità di questa mostra, rispetto alle tante sue
precedenti, è di presentare una serie di fotografie. L’attività
di fotografo, tenuta fino ad oggi rigorosamente nascosta, esplicita
ancora più chiaramente la natura del rapporto che lega l’artista
al reale: profondo rispetto e profonda ammirazione, quasi uno
sgomento alla Caspar David Friedrich, ma anche riprocessamento in
chiave artistica, dando vita a dipinti e incisioni realizzati con la
macchina fotografica, ottenuti col lavoro in camera oscura per le
foto analogiche e in postproduzione per le foto digitali. Campi
lunghi di monti e colline, marine oppresse da nuvole sature di
pioggia, greggi senza pastore che rievocano una natura ottocentesca,
profondamente romantica.
Il mondo dei dipinti è ancora più deserto, come abbandonato dalle
persone per una misteriosa calamità, ma i segni della loro attività
rimangono, vistosi, nelle opere, dal momento che i soggetti sono
quasi sempre attività commerciali: negozi e bancarelle, bar,
ristoranti e depositi. Tutti luoghi dove abbondante è la presenza di
merci, tante merci che nessuno vende e nessuno compra.
Nelle foto e nei dipinti, ecco dunque scattare una dimensione
narrativa: viene allusa, più che raccontata, una storia perduta,
confusa e inintelligibile; vengono evocati il sublime e il tragico,
il destino e il passato. Vengono in mente, oltre ovviamente ai
romantici inglesi (e alle romantiche! Heathcliff!), scrittori
novecenteschi come Cormac McCarthy, Juan Rulfo e Roberto Bolaño,
J.G. Ballard, Dino Buzzati…
Tra gli artisti, il riferimento più evidente sono le solitudini
dipinte da Edward Hopper o, nel contesto italiano, i meno noti
toscani Salvatore Magazzini o Marcello Scuffi. Ma, per lo spessore
simbolico innescato dai tanti quadri di oggetti abbandonati, tende,
vele, tessuti sventolanti, penso anche alle archeologiche
testimonianze del passato costruite da Joseph Cornell o agli
impacchettamenti di Christo, operazioni concettualmente diverse ma
che, come avviene anche in Andriolo, svuotano di senso le cose, ne
aboliscono il valore d’uso, le rendono in qualche modo tristemente
inutili, perché non c’è l’uomo che le ha create e usate. Dice
bene Brecht:
La
casetta
fra gli alberi al lago
dal tetto fila fumo.
fra gli alberi al lago
dal tetto fila fumo.
Non
ci fosse,
come tristi allora
casa, alberi e lago.
come tristi allora
casa, alberi e lago.
Enrico Formica
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