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mercoledì 4 maggio 2016

Eliseo Andriolo, doppio sguardo sulla realtà


Nessuna arte, per quanto si dica o la si classifichi realista, rappresenta la realtà. Anche la fotografia, che al suo apparire costrinse la pittura ad abbandonare la mimesis spingendola verso nuove affascinanti frontiere, mai è pura realtà o verità. Quando è verità, non è arte, ma denuncia o documento. Ciò che vediamo presentato nelle immagini artistiche è sempre un mondo, e l’efficacia delle opere è direttamente proporzionale alla capacità di creare mondi particolari, riconoscibili, diversi da tutti gli altri.
Sotto questo punto di vista, non c’è il minimo dubbio che queste opere, sia prese assieme che una ad una, presentano un mondo, il mondo di Eliseo Andriolo. Non un mondo di fantasia, perché le sue opere nascono sempre da uno sguardo sul reale, ma un mondo che è appunto il risultato di una selezione di elementi accuratamente disposti e della cattura di particolari sensazioni. La natura si offre al suo sguardo come un teatro di posa, descritto con grande forza realistica, perché possiamo quasi respirare la polvere e gli odori di questi posti, ma anche con grande potenza immaginativa, perché siamo trasportati in un’atmosfera diversa, con le sue specifiche risonanze, inquietudini, curiosità.
La particolarità di questa mostra, rispetto alle tante sue precedenti, è di presentare una serie di fotografie. L’attività di fotografo, tenuta fino ad oggi rigorosamente nascosta, esplicita ancora più chiaramente la natura del rapporto che lega l’artista al reale: profondo rispetto e profonda ammirazione, quasi uno sgomento alla Caspar David Friedrich, ma anche riprocessamento in chiave artistica, dando vita a dipinti e incisioni realizzati con la macchina fotografica, ottenuti col lavoro in camera oscura per le foto analogiche e in postproduzione per le foto digitali. Campi lunghi di monti e colline, marine oppresse da nuvole sature di pioggia, greggi senza pastore che rievocano una natura ottocentesca, profondamente romantica.
Il mondo dei dipinti è ancora più deserto, come abbandonato dalle persone per una misteriosa calamità, ma i segni della loro attività rimangono, vistosi, nelle opere, dal momento che i soggetti sono quasi sempre attività commerciali: negozi e bancarelle, bar, ristoranti e depositi. Tutti luoghi dove abbondante è la presenza di merci, tante merci che nessuno vende e nessuno compra.
Nelle foto e nei dipinti, ecco dunque scattare una dimensione narrativa: viene allusa, più che raccontata, una storia perduta, confusa e inintelligibile; vengono evocati il sublime e il tragico, il destino e il passato. Vengono in mente, oltre ovviamente ai romantici inglesi (e alle romantiche! Heathcliff!), scrittori novecenteschi come Cormac McCarthy, Juan Rulfo e Roberto Bolaño, J.G. Ballard, Dino Buzzati…
Tra gli artisti, il riferimento più evidente sono le solitudini dipinte da Edward Hopper o, nel contesto italiano, i meno noti toscani Salvatore Magazzini o Marcello Scuffi. Ma, per lo spessore simbolico innescato dai tanti quadri di oggetti abbandonati, tende, vele, tessuti sventolanti, penso anche alle archeologiche testimonianze del passato costruite da Joseph Cornell o agli impacchettamenti di Christo, operazioni concettualmente diverse ma che, come avviene anche in Andriolo, svuotano di senso le cose, ne aboliscono il valore d’uso, le rendono in qualche modo tristemente inutili, perché non c’è l’uomo che le ha create e usate. Dice bene Brecht:
La casetta
fra gli alberi al lago
dal tetto fila fumo.
Non ci fosse,
come tristi allora
casa, alberi e lago.

Enrico Formica  

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